MASAI Mi piace

Masai. Basta questa parola per volare con la fantasia sulle infinite pianure della Rift Valley Africana, fra Kenia, Tanzania e Mozambico. Basta questa parola per rivedere con gli occhi della memoria la scena del film “La Mia Africa” dove, in lontananza, compare un drappello di guerrieri che corre compatto e silenzioso. Saranno 8-10 uomini, con scudi, lance, paramenti e colori di guerra; filano via sotto il sole cocente senza lasciare una goccia di sudore sulla terra rossa. Filano via senza girarsi, senza cambiare ritmo di corsa, impugnando le loro pesanti e antiche armi diretti verso uno scontro sanguinoso con altri uomini ugualmente forti ed efficienti oppure lanciati all’inseguimento di una belva che la notte prima ha decimato un gregge di pecore protetto solamente da un recinto fatto da rami di acacia spinosa. Al giorno d’oggi non è rimasto molto dello spirito guerriero e nomade di queste popolazioni scese verso sud dalle valli del Nilo circa quattrocento anni fa; molti dei clan hanno lasciato le abitudini di allevatori transumanti per uno stile di vita stanziale causato dal passaggio da una forma di sostentamento legata all’allevamento a quello più rassicurante dell’agricoltura. Ancora rimangono in alcune aree della Tanzania gruppi seminomadi che vivono attorno al cratere Ngoro-Ngoro oppure nella immensa pianura del Serengeti. Qui ancora è possibile incontrare grandi mandrie di zebù scortate da uno o due uomini che indossano la shuka, la caratteristica veste fatta da due o tre panni di cotone così simili al kilt scozzese proprio perché adottata dopo la colonizzazione britannica. Vanno ancora in giro con una lunga lancia spesso portata appoggiata di traverso sulle spalle anche se sempre più spesso i sandali di cuoio sono sostituiti da calzature confezionate con vecchi copertoni di automobili e orologi digitali hanno preso il posto di braccialetti tribali fatti di pelle e ossa. Nonostante questo, è sempre bello incontrarli. Alti, sottili, neri come la notte, ridono poco e non danno molta confidenza. Incutono soggezione anche se, invece dalla lancia, impugnano una vecchia stecca e si sfidano a biliardo attorno ad un tavolo sgangherato appoggiato sul ciglio di una strada polverosa. Ci sono ancora villaggi le cui case sono fatte di rami, fango e sterco bovino anche se sempre più di frequente questi insediamenti sono formati da cubi fatti di mattoni e lamiera ondulata. Sanno accendere il fuoco con legno paglia, ma nella sacca di pelle di pecora tutti hanno un vecchio cellulare e spesso anche una power bank per non rimanere con la batteria scarica. Segni dei tempi che cambiano, anche nelle sconfinate savane africane. In meglio o in peggio proprio non saprei dire. Però anche oggi, quando mi capita di incontrarli con il telefonino incollato ad un orecchio oppure a cavallo di una moto sgangherata e rumorosa, non posso fare a meno di immaginarmeli mentre corrono, concentrati ed eleganti, sotto il sole che brucia a sud dell’Equatore.

Masai

Donne Masai nei tradizionali vestiti da cerimonia impreziositi da sontuosi collari e orecchini fatti di perline di vetro colorato

Masai

Pastore masai

Masai

Un gruppo di guerrieri-pastori si dirige verso il villaggio,

Masai

Masai

Due giovani Masai accompagnano in branco di zebù al pascolo

Masai

E' ancora possibile vedere le tradizionali case di rami, fango e sterco bovino essiccato in alcuni villaggi attorno al cratere del Ngoro-Ngoro.

Masai

In meno di un minuto, i Masai riescono ad accendere il fuoco con due rametti e un innesco fatto di sterco essiccato di bovino

Masai

Appena l'innesco inizia a fare fumo, il Masai lo raccogli e inizia a soffiare, per fare nascere la fiammella che permette alla paglia di prendere fuoco

Masai

La spettacolare danza Masai.
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