Risultato della ricerca: fregio
carmeloincorvaia
Particolare del timpano, sigma, fregio, architrave, capitelli e colonne.
Rob75
La Colonna Traiana è senza dubbio uno dei monumenti più celebri di Roma antica. Rimasta sempre in piedi al suo posto dal momento della sua costruzione, delinea il paesaggio urbano da quasi duemila anni. Fu dedicata dal Senato a Traiano e inaugurata dall’imperatore nel 113 d.C., come ricorda l’iscrizione posta sopra la porta d’accesso ricavata nel basamento. La Colonna venne collocata nel complesso del nuovo Foro, al centro del cortile che si raggiungeva dopo aver attraversato gli enormi spazi della piazza porticata e della colossale Basilica Ulpia. Il monumento, alto complessivamente quasi 40 metri, si erge su un alto basamento quadrangolare ornato su tre lati da bassorilievi con cataste di armi, mentre il lato rivolto verso la basilica ospita l’iscrizione di dedica. Su questo lato si apre la porta d’ingresso alla cella interna dove venne deposta l’urna contenente le ceneri dell’imperatore e da dove è possibile accedere alla lunga scala a chiocciola rischiarata da 43 feritoie che consente di raggiungere la sommità. Intorno a tutto il fusto si avvolge a spirale per ben 23 giri un fregio a bassorilievo lungo circa 200 metri, opera di un ignoto scultore noto come Maestro della Colonna Traiana. L’opera si impone all’attenzione degli spettatori soprattutto per l’eccezionale programma decorativo rivolto a celebrare le due vittoriose campagne militari del 101-102 d.C. e del 105-106 d.C. contro i Daci, una popolazione barbarica che abitava l’odierna Romania.
FedericoParraPoiesis
La Mappa del Cielo e delle Stelle Il mio battello salpava sempre presto ogni mattina. Il capitano non aspettava mai per nessuno! Partiva sempre dallo stesso porto, alla stessa ora e per lo stesso mare. Così furono anche i sogni che avevano stabilito per me. Il capitano era mio padre, anche se non sapeva di esserlo. Il primo ufficiale era mio fratello, e lui sapeva di esserlo. Mia madre era la sguattera di bordo e non aveva mai un motivo o una ragione per toccare il timone. Le vele erano troppo alte e le tempeste le facevano molta paura. Del suo essere portava in tasca solo un documento con scritto il nome. Il veliero era grande e bellissimo, però faceva solo il giro della nostra piccola isoletta. Una prua maestosa che avrebbe potuto navigare contro la forza dell\'oceano. Se ne stava invece ferma, in rada a galleggiare. A me avevano assegnato il posto nella stiva. Dovevo controllare la merce, legare le casse, e stare attento che nulla cadesse. In quella calma quotidiana mi sentivo alla deriva. Dal mio piccolo oblò nascosto nel fondo della stiva, guardavo fuori tutti i colori cambiare e dal cielo e dai gabbiani imparavo a volare. Ogni cosa è quel che sembra, ma anche tutto ciò che può sembrare. Così intorno a me l\'isola sembrava una gabbia virtuale. Fuori dal mio oblò era tutto azzurro infinito e mare. Io dovevo controllare la merce durante le tempeste. Un grande onore diceva tutto l\'equipaggio, un lavoro da niente, un lavoro che tutti possono fare. Per loro questo era veramente un pregio e un favore. Forse non mi meritavo tanto, visto che come dicevano a bordo... Non ero mai contento! Io invece non capivo bene cosa stessi a fare su quel vascello. Dato che di tempeste non ne avremmo mai incontrate. E visto che mai il capitano avrebbe lasciato le acque sicure dell\'isola, per navigare in mare aperto con il suo ammirato battello. Giravamo intorno alla terra ferma, come pavoni, per farci notare. Diceva il Capitano che è sempre un bene quando c\'è da guadagnare. Quando c\'è qualcosa da farsi invidiare o da ammirare. La baia intorno all\'isola era calma e sinuosa, aveva le curve e le insenature come i fianchi di una donna dalla pelle rocciosa. La grande prua del nostro battello, sembrava puntare verso il lontano orizzonte. Ma rientrava lungo i fianchi dell\'isola curvando improvvisamente. Io ero solo un bambino nella stiva. Il capitano di quella nave e di quella finta famiglia, mi aveva lasciato solo e naufrago alla deriva. Guardavo dal mio oblò la Luna che risplende sull\'argento del mare e che non può mai ingannare. Seguivo da un buco la mappa del mio cielo e di tutte le stelle. Rimanevo incantato per ore a veder le nuvole viaggiare. Poi immaginavo rotte impossibili per noi tutti. Immaginavo fossimo come le nubi che attraversano ogni mare. Vedevo sulla prua del nostro veliero tanti grossi tentacoli provenire dal fondo degli abissi per farci affondare. Quelle cose provenivano dal mio avventuroso immaginario di letture, ma era anche una strana speranza. Che tutto potesse essere distrutto per sempre e finalmente trasformarsi e poi cambiare. Io ero solo un bambino nella stiva, guardavo fuori dal mio buco i colori del cielo lentamente cambiare. Ascoltavo i venti arrivare e li sapevo riconoscere e catalogare. La divisione netta tra liquido azzurro e infinito in movimento. La linea dell\'orizzonte che si piega intorno al mondo, dove il vascello diventava piccolo e insignificante. E come un guscio di noce andava verso il fondo. Vedevo dal mio buco i delfini trasformarsi nelle onde del mare. I pesci volanti diventare gli spruzzi e schizzare. Nella schiuma bianca delle onde di ritorno vedevo milioni di meduse divenire solide ogni giorno. Quando fui quasi uomo, per uno sbaglio di calcolo, per una rotta sbagliata o per una forza sottostante e conduttrice di certe onde. Il capitano ci portò per nell\'isola vicina delle sirene bionde. Appena riconobbi nel vento il loro canto e il loro odore, vidi tutte le cose sulla nave cambiare. Il capitano si voltò dal comando e si accorse subito di me, lasciò il timone e disse che oggi ero pronto a comandare. Era la prima volta che il capitano mi guardava, ma le sue orbite erano vuote come caverne. E dentro gli occhi un cielo cupo di tempeste, così pieno di misteri, dove volavano nel vuoto milioni di corvi neri. Le sirene bionde sanno per certezza secolare sicuramente cantare, si prendono in bocca gli uomini di poco valore e li vanno a vomitare. Solo chi è \"Nessuno\" le ha potute incontrare. Ora ero quasi un uomo e dovevo ancora controllare la stiva. \"Vigliacchi! Infami e Bastardi cani!\" Diceva il mozzo tra una bestemmia e l\'altra... Dicevano che era matto e nessuno a bordo sapeva mai con chi ce l\'aveva. Il capitano e gli ufficiali erano a terra nel bar del porto, a giocare soldi d\'azzardo e divertirsi e godere come grossi maiali. La sguattera puliva in fretta e preoccupata diceva: \" Facciamo presto che tra poco il capitano arriva!\" Io vedevo le balene grigie diventare arcobaleni, poi i colori sparpagliarsi in battiti di ali e trasformarsi in polvere magica e colorate falene. Avevo per amici i gabbiani, che diventavano leggeri come lanterne e poi aquiloni. Qualche volta venivano da soli i pesci, a mangiare dalle mie mani. Io cercavo solo la mappa del mio cielo e delle stelle, ed è per questo che dovevo imparare a viaggiare. La mia vita cercava di condurmi al paese della fantasia, adesso ne sono certo, perché abito da solo in casa sua. Così dovevo sempre solo immaginare, cosa vi fosse aldilà dell\'orizzonte e del mare. Già a quel tempo sapevo dell\'Africa e della fame e del pane. Io non parlavo con lui, ma sapevo ascoltare il mio cane. Avevo visto le tigri e i leopardi che prima erano tappeti di foglie gialle e nere animarsi e correre veloci per cacciare. Avevo visto le teste grandi dei leoni diventare presidenti, criniere e corone per uomini potenti. I cavalli correre selvaggi e divenire i muscoli tesi dei venti. Le giraffe dalle lunghe gambe eleganti, come le donne più belle che corrono sui tacchi a spillo, per fuggire senza riuscirci a uomini violenti. Avevo visto i bambini di tutti i mondi poveri piangere e urlare, per un mio gioco nocivo, riuscivo a scambiare i miei occhi con i loro. Serviva a delineare la mia mappa del cielo e del mare, ma non era un bel gioco da fare. Sentivo forte la fame, la sete e la loro paura... Una madre qualunque di quel villaggio mi prese in braccio, mi spinse sul suo seno e iniziò ad allattarmi come chiede la natura. Nella capanna due uomini stavano violentando una donna. Io continuavo vorace a farmi nutrire e avevo sempre meno paura. Tutto pareva bello in quel gesto materno, ma non lo era! Così questa era la mappa del mio cielo. La scrivevo nel mio profondo di giorno e di notte... Era il posto dove ogni incubo e ogni sogno poteva diventare vero e io restavo solo. Il capitano benché fosse capitano da molto tempo. Non capiva proprio niente del mare. Per lui il mare era solo tanta acqua salata di una vasca immensa, Poteva essere cattivo e pericoloso o di pesci generoso. Per lui il mare era solo un lavoro e in lui non c\'era nessun\'altra coscienza. Il capitano era ubriaco di giovani puttane e di scommesse. Il primo ufficiale sembrava mio fratello, ma non lo era. La madre non era il fregio né il nome del nostro vascello, era solo una madonna piangente che non racconta mai niente di bello. La madonna era una sguattera che non aveva mai avuto una sola ragione, per togliere dalle mani del padrone il comando e il timone. Era una serva che diceva sempre si per nascondersi dall\'opinione della gente. Sorrideva solo quando si doveva sorridere e non a lungo, non sempre. A me avevano assegnato il posto nella stiva. Dovevo controllare la nostra merce e legare le casse. dovevo stare attento che nulla improvvisamente cadesse. In quella finta calma apparente ormai mi sentivo alla deriva. Dicevano a bordo che eravamo una buona famiglia, e che tutte le altre navi erano navi da pirati. Io però non gli ho mai creduto veramente! Forse, perché un vero capitano dovrebbe avere il coraggio di viaggiare, di navigare. E capire molte cose in più del mare. Poi ci fu un alba improvvisa dentro di me, era un mattino dai colori vivaci che si mischiavano liberi tra cielo e mare. Era un giorno da cuori impavidi che avevano bisogno di salpare. La grande nave che partiva per attraversare l\'oceano si avvicinava lentamente al mio oblò nascosto nella stiva. Tutto sembrava speciale quel mattino guardando fuori dal buco, anche perché da sempre mi ero sentito galleggiare alla deriva. Così questa era la mappa delle stelle e del mio cielo. Erano i miei amici gabbiani che mi chiedevano di andare con loro, di spiccare il volo. Io a quel tempo ero un po\' uomo e un po\' bambino. Aprii in fretta il finestrino e mi lasciai andare. Caddi tra le braccia azzurre del mare. Avevo un piccolo salvagente intorno alla mia vita. Ero un punto rosso e galleggiante sull\'azzurro del mare. La corrente mi portava lentamente tra le due grandi navi, una ferma immobile e l\'altra che ora partiva a navigare. Tutto in quel mattino sembrava molto poetico. Tutto pareva bello, ma effettivamente non poteva esserlo! Federico Parra www.Federicoparrapoiesis.com
Dario Peracchi
Il Vittoriano è dedicato a Vittorio Emanuele II e da lui ne prende il nome. Quando il primo Re d'Italia morì di polmonite il 9 Gennaio 1878 a soli 57 anni, tutta la Nazione fu attraversata da un profondo cordoglio. In quel clima di eccezionale partecipazione collettiva il Consiglio Comunale di Roma deliberò di erigere un monumento stanziando per questo nella seduta del 10 Gennaio 1878, la somma di centomila lire. La statua di Vittorio Emanuele II è il perno del Monumento. Fu realizzata fondendo 50 tonnellate di bronzo, ricavato dai cannoni fusi. Le dimensioni sono gigantesche: lunga 10 metri e alta 12 metri. Quattordici città italiane fungono da piedistallo alla statua; le città rappresentate sono: Genova, Milano, Bologna, Ferrara, Pisa, Mantova, Urbino, Palermo, Firenze, Torino, Ravenna, Amalfi, Napoli, Venezia. A fare da quinta alla statua equestre di Vittorio Emanuele II, c'è il portico con una lunghezza di circa 75 metri, sul quale a coronamento sono scolpite sedici statue che rappresentano le sedici regioni Italiane di fine '800. Le statue sono alte 3,5 metri. Le regioni rappresentate sono: Piemonte, Lombardia, Veneto, Liguria, Emilia-Romagna, Toscana, Marche, Umbria, Lazio, Abruzzo, Campania, Puglia, Basilicata, Sicilia, Calabria e Sardegna. La realizzazione delle statue venne affidata ad uno scultore di ogni regione. Le quadrighe, collocate nel 1927, portano il Vittoriano all'altezza massima di 81 metri. Rappresentano l'Unità e la Libertà e sono frutto dell'opera di due scultori diversi: Carlo Fontana e Carlo Bartolini. La statua della dea Roma è ispirata all'effige di Minerva. E' opera dello scultore di origini bresciane Angelo Zanelli, che lavorò al bozzetto del fregio per ben 15 giorni.
Stefano_Balotta
Percorrendo la Historic Route 66, si arriva alla piccola cittadina di Williams in Arizona. Nell'ottobre del 1984 si è guadagnata il fregio di essere stata l'ultima città, lungo la Route 66, ad essere stata bypassata dalla più recente e veloce Interstate 40. Williams, per la sua vicinanza al South Rim del Grand Canyon viene spesso chiamata "Gateway to the Grand Canyon", infatti da questo paese parte un'antica linea ferroviaria, con locomotiva a vapore, che arriva direttamente all'interno della parte sud del parco nazionale. Commenti e critiche sempre ben accetti.
guido.tagnesi
Costruito circa cinquant'anni prima del Tempio di Nettuno e 50 anni dopo quello di Hera ha delle particolarità che lo distingue dagli altri due templi e lo rendono uno dei più interessanti dell'architettura greca. Il frontone alto rende questo Tempio unico; il fregio dorico composto di larghi blocchi di calcare è anch'esso di tipo unico. La pianta interna, più semplice di quella degli altri due templi era composta dal pronaos e dalla cella nella quale non ci sono tracce della camera del tesoro (adyton). Il pronaos aveva otto colonne con capitelli ionici, quattro sul fronte e due su ciascun lato. Delle colonne ioniche del pronaos si vedono solamente le basi e due capitelli ( i più antichi in stile ionico rinvenuti in Italia) sono custoditi nel vicino Museo Archeologico. Il ritovamento di numerose statuette in terracotta (ex voto) raffiguranti Atena nelle stipi votive prova che il Tempio non era dedicato a Cerere ma alla dea della saggezza e delle arti Atena. Infatti il tempio sorge sulla parte più alta della città, luogo dove sono sempre stati eretti i templi in onore di Atena nelle città greche.
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Il fregio superiore sinistro della galleria colonna - Sordi a Roma.
aquilak13blu
Gustav Klimt, 'Il fregio Stoclet', proiettato insieme ad altre opere sulle mura della chiesa di S.Lucia ad Alberobello (Ba), in occasione dei "Summer Lights 2018", per celebrare i 100 anni dalla scomparsa dell'artista austriaco.
en.giuliani
L’imponente atrio o nartece, esempio unico di architettura romanica caratterizzata da arditi incroci di archi in conci di arenaria e mattoni in argilla che si intrecciano a coppie parallele, costituisce una complessa articolazione dello spazio. Sorto sull’area dell’antico cimitero antistante la chiesa, l’atrio presentava fin dalla costruzione una sua configurazione particolare caratterizzata da accessi frontali e laterali sempre aperti al passaggio pubblico. Due gallerie a forma di matronei, indipendenti e accessibili dall’interno dei campanili tramite scale a chiocciola, si distendono sui lati esterni dell’atrio. Collegate dalla tribuna, chiuse da soggette con archi a tutto sesto e illuminate da grandi finestre, esse conferivano al luogo un ruolo quasi esclusivamente sociale, assai importante nell’attività politica del borgo in fase di pieno sviluppo. Di particolare interesse gli elementi decorativi nascosti dagli intonaci (ritornati alla luce dopo il complesso lavoro di recupero biennale concluso nel 2001), che dagli studi presentano alcuni parallelismi con il Portale della Gloria di Santiago di Compostela, come il fregio della cerva e il rosone della primitiva facciata. Si sono individuate anche colonne romane nella galleria verso la piazza. In luce anche un affresco di alta epoca. Questo inconsueto ed enigmatico ambiente riflette una identità più sociale che religiosa. Esso infatti è troppo grande per essere solo porticato di protezione e alquanto separato per appartenere interamente alla chiesa, considerato nella sua configurazione architettonica e nel suo schema distributivo caratterizzato da un piano terreno aperto da portici (che circoscrivevano una grande aula in grado di accogliere importanti adunanze pubbliche) oppure luogo di accoglienza del pellegrino (come attestano i bacini ceramici in facciata), da un piano superiore con logge adatte più per arringhe che per assolvere funzioni di matronei e, in facciata, da un campanile diverso da quello della chiesa, con campana riservata al Comune. Destinazione a cui l’atto progettuale era improntato fin dalla nascita, situazione particolare, ma non sorprendente ed estranea alle condizioni in cui si trovava il Borgo di sant’Evasio, estremamente addensato e povero di spazi urbani. Motivo per cui la chiesa di Sant’Evasio assurge da quel momento a simbolo politico di tutta la comunità.
en.giuliani
La basilica sorge sulle fondamenta di una casa romana, tuttora visibile, che la tradizione vuole essere quella della famiglia di Cecilia, e che scavi recentissimi hanno rivelato essere stata prestissimo adibita al culto cristiano, con tracce di un raro fonte battesimale, il che testimonia dell'importanza del luogo di culto cristiano fin dalla tarda antichità, luogo di culto la cui prima menzione risale peraltro al 499. La costruzione della basilica ancor oggi visibile è opera di Pasquale I (817-824), che la fece splendidamente decorare, mentre il portico, il campanile e una parte del convento sono opera di Pasquale II (1099-1118). Una seconda, ricca fase decorativa dell'edificio si ebbe intorno al 1290, con gli affreschi di Pietro Cavallini e il ciborio di Arnolfo di Cambio. Ulteriori restauri si ebbero nel quattrocento e nel cinquecento, oltre al ritrovamento sensazionale all'epoca, del corpo della santa nel 1599, su cui ci soffermeremo più avanti. Una forte modifica dell'interno fu effettuata nel 1724, ma soprattutto lasciò il segno l'intervento del 1823, quando le colonne delle navate, per motivi statici, furono racchiuse in pilastri in muratura, alterandogli equilibri spaziali dell'interno. A cavallo fra l'ottocento e il novecento scavi e restauri hanno rimesso in luce la casa romana sottostante e gli affreschi del Cavallini. Sulla piazza di S. Cecilia si affaccia il monumentale ingresso settecentesco al quadriportico, dubbiosamente attribuito a Ferdinando Fuga; il quadriportico originario di accesso alla chiesa è in realtà oggi un bel giardino al centro del quale è stato collocato un grande vaso romano. Gli edifici sui due lati del giardino sono occupati a destra da un monastero di suore francescane, a sinistra da un monastero di benedettine, alle quali è affidata la basilica di S. Cecilia. Il portico della chiesa conserva sull'architrave un fregio musivo del XII secolo riccamente policromo, dove sono raffigurate tra l'altro S, Cecilia e altri santi e sante. Sotto il portico molti monumenti funebri, tra cui spicca quello del cardinale Paolo Emilio Sfondrati (m. 1618), opera di Girolamo Rainaldi, le cui sculture furono eseguite su disegno di Pietro Bernini, padre di Gian Lorenzo.
en.giuliani
Il soffitto a lacunari, con ricca decorazione dorata, reca nel mezzo lo stemma di papa Pio IX. Alle pareti, in alto, 36 affreschi coi fatti della vita di S. Paolo; sotto, sopra la trabeazione, corre un fregio coi ritratti in mosaico dei papi, da San Pietro a Giovanni XXIII. I medaglioni con i restanti papi fino a Benedetto XVI si trovano nelle navate laterali.
MarcoSan
Dettaglio del cancello di ingresso del chiostro del museo del Duomo di MOnza