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Fotogiornalismo: fatti e misfatti
, (Era "Robert Capa")...
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_Nico_
NPA
Messaggio: #1
Da La repubblica:

Le immagini dei conflitti scattate in Spagna, Indocina, Francia
Un percorso tra le istantanee epocali di Robert Capa
Il grande fotografo di guerra che amava l'avventura, l'etica e il gin

di IRENE BIGNARDI

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ROMA - Ci sono immagini così cariche di riferimenti, di allusioni e di risonanze che diventano le protagoniste assolute dell'immaginario nutrito nei confronti del loro autore. Munch senza Il grido? Be', in effetti per ora bisogna accontentarsi di ricordarlo.

E così, anche nei confronti di un grande, grandissimo del fotogiornalismo come Robert Capa, la celeberrima foto del miliziano che muore colpito da una pallottola, colto dalla macchina fotografica proprio mentre il suo corpo si piega all'indietro nel dolore, è una immagine che concentra un di più di significati e di simboli - e anche un'immagine su cui, proprio per questo concentrato simbolico di valenze umane e storiche e di grandezza giornalistica, si sono scatenate le polemiche e le invenzioni calunniose (che fosse una scena ricostruita, una "sceneggiata"): tutte rintuzzate dalla logica della vita e della morte di Robert Capa e dalla argomentazioni chiarissime che mette in campo Richard Whelan nella presentazione del bel libro che lo scorso anno venne editato da Contrasto per l'anniversario della morte del grande fotografo.

Per la precisione il miliziano ha un nome, di chiama Federico Borrell Garcia, il luogo era Cerro Muriano, meno di tredici chilometri a nord di Cordoba, e la sua morte è registrata quel giorno negli archivi del governo spagnolo.
Questo per dire che nell'attesa dell'incontro con queste immagini dense di riferimenti spesso si trascurano altri momenti dell'opera di un autore. La bella mostra che è approdata ora a Berlino ed è dedicata a Robert Capa nel Martin-Gropius-Bau (fino al 19 aprile), è costruita invece con tanta passione e intelligenza da farci dimenticare la caccia al "capolavoro", da farci percorrere le tappe di una vita e di un lavoro straordinario scoprendone il resto, la parte meno vista e meno visibile.

Anche perché la mostra contestualizza le foto di Capa nella cornice del suo lavoro giornalistico, mettendo in evidenza i giornali, le riviste, il modo in cui venivano pubblicate e impaginate le foto scattate dai fronti a rischio continuo della vita - come si è visto dalla sua tragica morte a quarant'anni in Indocina, nel 1954, saltando su una mina - , facendoci capire come venivano presentate quelle immagini al lettore che voleva sapere di quelle guerre e di quelle battaglie. E proprio perché c'è tanto, c'è tutto, dalla guerra di Spagna alla Cina, dallo sbarco in Normandia all'Indocina, si legge anche il percorso dell'uomo Capa, fotografo di guerra ma soprattutto uomo di pace, che vede la sofferenza della gente, il suo modo di sopravvivere, la gioia dei bei momenti, il terrore della fuga.

Un altro grande recentemente scomparso, Henri Cartier-Bresson, l'ha definito "un avventuriero con un'etica". Avventuriero, suppongo, perché in effetti di avventure Capa ne ha attraversate molte, da quando se ne è andato a diciassette anni, nel 1930, dalla sua tranquilla posizione di figlio della borghesia ungherese diventando, da Endre Friedman che era, Robert Capa, un nome che si pronuncia uguale in tutte le lingue, quasi anticipando un futuro di continui giri per il mondo.

Con un'etica, certo, perché basta guardare le sue foto, il rispetto per le persone, la scelta delle situazioni, per capire che dentro l'avventuroso avventuriero che sapeva anche godersi la vita in tutte le sue forme c'era un uomo pieno si sensibilità umana.
Se tuttavia la realtà darà poi ragione alla sua morosa, Gerta Taro, anche lei fotografa, che lo proponeva nelle redazioni dei giornali come "il grande fotografo americano", se Picture Post lo definiva (azzeccandoci), per ovvie ragioni giornalistiche, "il più grande fotografo di guerra del mondo", facendo i conti si scopre che Capa ha solo venticinque anni quando scatta le sue famose undici foto dalla Spagna repubblicana in guerra pubblicate appunto da Picture Post: dove, accanto alla celeberrima immagine del miliziano, c'è anche il lato della gente, della durissima vita quotidiana. E' questo che raccontano le sue foto, che racconta la mostra. La visione di un ragazzo pieno di umanità. E con una vita che si riempie subito di dolore, perché la sua amata Gerta muore, travolta da un carro repubblicano.

Tra molte birre e molti gin, tra molti amici meravigliosi e molte guerre in cui dimenticare, Capa nel 1938 è in Indocina con Ivens a fotografare la resistenza del popolo cinese contro l'invasione giapponese, poi di nuovo in Spagna, poi in Francia, dove ritrae Léon Blum, poi emigra negli Stati Uniti, dove gli negano il passaporto ma lo mandano a documentare lo sbarco in Normandia.
Altro che Saving Private Ryan. Altro che la celebre battuta di Capa "Se una foto non viene bene, vuol dire che non eri abbastanza vicino". Lui era lì, in mezzo a quel glorioso massacro, e anche se la cronaca ci dice che molte, troppe foto dello sbarco sono andate perdute per uno stupido errore del laboratorio, anche se sono leggermente fuori fuoco (come si intitola anche la sua autobiografia) perché Capa dice di aver avuto paura, quelle che sopravvivono, e in cui la gente ha riconosciuto l'eroismo di quei ragazzi di Omaha Beach, sono dei monumenti al coraggio dei protagonisti e una prova di grande giornalismo.

Prima c'è stato lo sbarco alleato in Sicilia, e quella foto straordinaria del piccolissimo contadino siciliano che indica al gigantesco americano - opportunamente inginocchiato per essere alla sua altezza - la strada che hanno preso i tedeschi in ritirata. Poi le emozionanti immagini della liberazione di Parigi e la durezza della vendetta sulle collaborazioniste. Poi ci sarà il viaggio con Steinbeck in Unione Sovietica, dove ambedue vivono un doloroso ripensamento. Infine l'Indocina, e la mina che lo uccide a quarant'anni. Tutto glorioso, tutto grandioso. Ma il percorso che si snoda da una guerra a una battaglia, da una foto "epocale" all'altra, attraverso le immagini di un fotogiornalismo coraggioso e impegnato, è scandito, nella mostra berlinese, da altre immagini, da altre vite, dalla curiosità per la gente, da un profondo respiro umano.

(18 marzo 2005)
 
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Messaggio: #2
Nella risposta prendo un po' quà e un po' là...
QUOTE
Se pensiamo e accettiamo che la foto sia una rappresentazione fedele della realtà mettiamo in crisi il valore dell’artista (non tutti lo sono ma pensiamo di si)

E' questo uno dei nodi principali che vedo... io non so chi è artista e chi non lo è, non ho la capacità per giudicarlo, ed infatti non mi permetto di criticare l'arte, nella fotografia mi limito a comprendere o non comprendere il significato di ciò che vedo. Ma la definizione stessa di reporter, ma ancor più di fotogiornalista, è a mio modo di vedere, distante anni luce dall'artista. Per far capire, un poema di Dante io lo reputo una forma d'arte e me ne gusto l'aspetto piacevole, un linguista o un letterato ne comprenderanno aspetti di cui io non ho idea. Un articolo che mi parla di una qualunque guerra, o un libro che mi parla dei comportamenti di un popolo, vorrei che avesse una visione di cronaca o antropologica (rispettivamente) di ciò che vede. Ovviamente esso introdurrà delle deformazioni, date dal punto di vista dell'autore, ma queste deformazioni non devono essere coscienti nell'autore, devono nascere dal sentire non dal calcolo. Una testimonainza partecipata di un evento. Non pretendo l'essere robot del fotografo, ma neanche l'essere asservito del fotografo o peggio la volontà di asservire all'idea. Questo reputo creazione falsa, se il fotografo è testimone dell'evento e ne vuole sottolineare ciò che lo ha colpito, nel momento in cui non c'è tempo per pensare, come dice Sergio, allora io so che l'immagine non dirà il vero, ma solo ciò che ha sentito chi scatta e null'altro voglio dal fotografo. Ma se per leggittimare la posizione antiguerra io creo una immagine,non solo, ma cosa più grave LA SPACCIO PER EVENTO ACCADUTO, io non faccio molto differenza dalla Donazione famosa che cita Nico. Che sia leggittima la posizione del potere temporale della chiesa era per l'epoca ovvio, ma qualcuno voleva vedere perchè era leggittimo. Così un anonimo monaco si mette a scrivere un documento che afferma il passaggio di poteri dall'imperatore Costantino ai Papi e lo spaccia come autentico redatto all'epoca. Servirà un Valla tra mille difficoltà per dimostrare che quell'evento riportato non è un evento, non è mai stato. Ciò dimostrato nella storia quel documento è risultato come un falso, come un ombra per la chiesa, non certo come una libera interpretazione di un artista della lingua, per quanto potesse essere eccezionale il modo in cui è scritto. E oggi Valla lo si ringrazia per aver dato il via allo studio della filologia dei documenti, non certo lo si accusa di aver complottato per far cadere la chiesa o il valore della scrittura.
E poco se ne discosta la foto di Capa e le foto sue pari. Esiste un documento che attribuisce ai Papi il potere temporale sugli Stati della Chiesa, ma non è quello.
Che i falsi esistano è chiaro, non sono così ingenuo da non saperlo, ma che l'importante della testimonianza è il fine a cui porta non lo trovo corretto.
E quindi c'è da vedere se il fotogiornalista e/o il giornalista debba testimoniare o inventare per ottenere un fine. Mi sembra evidente come la vedo.

QUOTE
“La Fotografia diventa allora per me un medium bizzarro, una nuova forma di allucinazione: falsa a livello della percezione, vera a livello del tempo: un’allucinazione in un certo senso temperata, modesta, divisa (da una parte <<non è qui>>, dall’altra <<però ciò è effettivamente stato>>): immagine folle, velata di reale

Purtroppo come tutte le citazioni andrebbero contestualizzate, perchè da questa frase io potrei trarne esattamente la mia posizione, ma un altro potrebbe trarne una completamente diversa.

QUOTE
Una fotografia può essere testimone fedele della realtà, ma quella stessa realtà non è in grado di raccontarla, da sola.

Ne sono perfettamente cosciente. I miei studi tendono infatti a ricostruire la realtà il più simile possibile alla verità, quindi ne sono perfettamente cosciente. ma la foto di Capa (e simili) storicamente non ha valore, non mostra nulla... quindi ripeto a che scopo fare la fatica di andare a fare una foto di un uomo che fa finta di morire su un prato in Spagna?! e perchè poi spacciarla come testimonianza di un evento?! Credo che chi andò in Spagna e chi ancora parte dovrebbe partire con l'animo di essere gli occhi del mondo, non di andare a fare un videogame

QUOTE
La fotografia può raccontarti qualcosa solo se tu hai già le basi culturali per capire quello che essa ti mostra, altrimenti può addirittura farti credere il contrario.
Immagina ad esempio di vedere la foto di un uomo in manette, disperato, davanti au un giudice: che cosa puoi capire tu da quella foto, perfettamente impersonale? Assolutamente niente, potrebbe essere un innocente accusato ingiustamente oppure un gerarca nazista a Norimberga.

Infatti è per questo che io voglio che la foto mi testimoni quello che vede, perchè si possa comprendere approfondendo. il manico sta nel far capire che quello è un gerarca o un prete nelle carceri di Castro. Ma se quello non è né un gerarca né un prete, ma un fruttivendolo vestito con gli abiti della festa in maschera ad un finto processo, non posso reputarla una foto di fotogiornalismo. Lo potrei fare se la titolassi "fruttivendolo che ricorda Norimberga", ma non è "gerarca nazista al processo di Norimberga". Il messaggio è lo stesso anzi forse quella al fruttivendolo viene meglio, ma lui non è un gerarca e il fotografo non ha fatto una foto a Norimberga. A pare mio, però spacciandole per vere queste foto, si ottiene il contratto con Life.

QUOTE
La fotografia di reportage, perchè di questo stiamo parlando, manterrà sempre una importantissima componente di interpretazione, sia da parte del fotografo che decide cosa fotografare e come, sia di chi poi guarda quella fotografia e la interpreta secondo la sua cultura e la sua sensibilità.

Certamente ed è proprio quello che voglio, il fotografo decide cosa e come... non QUANDO.

QUOTE
Credo, invece, che in circostanze, nelle quali vincoli obiettivi (spazio, tempo) impediscono movimenti e ragionamenti, il manico incida poco


Per i motivi che ho detto prima non concordo, io non credo che stando a New York, intorno le torri gemelle sarei riuscito a fare la foto di Natchwey in merito.

QUOTE
Quello che forse ci divide è il considerare il fotogiornalismo di allora con gli stessi parametri di oggi.


Non credo. Io accetto il concetto più volte dettomi di considerare il fotogiornalismo di allora diversamente da quello di oggi, ma non ritengo quello fotogiornalismo. Capa (e compagnia) non ha raccontato un fatto in quella foto, se l'è inventato. e questo non è questione di mezzi tecnici, ma di onestà intellettuale. Avrei preferito una orrenda foto mossa (come del resto sono molte dello sbarco in Normandia) di un fatto vero, che una perfetta foto di un fatto falso.

Cris

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