Tsavo National Park East - Kenya
19 04 2017
In Africa ho ritrovato la libertà. Degli esseri umani e degli animali. Le immagini sono state metafora di nuovi orizzonti, di spontaneità ma anche di un senso di impotenza. Ho riscoperto il valore del colore grazie alle mie reflex Nikon. Le mie fotografie sono spesso definite complicate eppure il mio modo di fare è piuttosto semplice e casuale. Percepisco, quasi “fiuto” il momento giusto per fotografare. Cerco di seguire il ritmo delle strade, talvolta immergendomi nelle situazioni, altre volte restandone al di fuori. Tutto dipende da quello che il mondo vuole offrirmi in un determinato momento. Questo modo di lavorare mi fa venire in mente ciò che lessi un po’ di tempo fa su un libro di fotografia di Charles Harbutt: «Non sono io a trovare le foto, sono loro a cercare me. Io devo solo assicurarmi di avere la pellicola nella macchina ed essere pronto». Ho scelto di scoprire il Kenya, lo Tsavo East National Park, più per necessità che per il semplice desiderio di rilassarmi. I miei viaggi prendono forma da un’immagine che mi colpisce, per un istante o ripetutamente, e che per qualche motivo mi si insinua sotto la pelle. Se questa porta con sé altre immagini, insieme si fondono fino a farne un’entità, un progetto, una prospettiva di crescita. E quando ciò accade, mi trovo di fronte all’inizio di un nuovo capitolo della mia vita. Ecco, con il Kenia è andata così. Mi sono documentato, ho cercato in Internet informazioni sul luogo, ho acquistato un biglietto e sono partito. Il Parco Nazionale dello Tsavo è il più grande parco protetto del paese africano, con oltre 20.000 kmq. La strada che da Nairobi, capitale del Kenia, porta a Mombasa lo divide in due parti, il parco Est - dove ho condotto il mio viaggio - e quello Ovest. L’eccezionale biodiversità rende il Tsavo National Park una delle riserve protette più preziose al mondo nonché fra le aree più visitate del Kenia. Fino a ieri ho fotografato gli animali in cattività, attraverso una barriera trasparente, come il cristallo degli acquari o le vetrate dei musei, o attraverso le sbarre delle gabbie negli zoo. Con la giusta luce, il vetro che separava me dall’animale rifletteva le espressioni degli spettatori: una combinazione di stupore e ironia, piacere e tristezza, comunione e isolamento. Altre volte, la barriere diventava una finestra, un muro, uno specchio. Una sensazione strana che ho provato per esempio nel giardino zoologico di Francoforte. In quell’occasione, ho capito che le mie fotografie sono più sagge di me. Ci metto mesi, a volte, per capire quello cercano di dirmi. In Kenya ho ritrovato invece la libertà. Degli esseri umani e degli animali. Le immagini sono state metafora di nuovi orizzonti, di spontaneità ma anche di un senso di impotenza. Il ricordo dei villaggi incontrati e visitati lungo la strada ha lasciato in me un’impronta indelebile. Al mio modo di fotografare, tutto “occidentale”, mancava qualcosa: la luce tagliente e i colori intensi di questo mondo. I luoghi che ho scelto di ritrarre, in cui il colore è parte integrante della cultura e della vita, li ho vissuti all’ombra di un baobab o calpestando la terra rossa. In Kenya ho scoperto un nuovo modo di lavorare, con colori saturi e accesi. Ho capito che il colore va oltre il colore stesso. Il colore è emozione. Se il bianco e nero vengono dal cuore e dalla testa, il colore viene dallo stomaco, è più sensuale. Un rosso può essere rassicurante, oppure minaccioso, a seconda della sensibilità, dell’esperienza o della provenienza di chi osserva queste immagini.