Ho letto una volta di una antica credenza che spiegava il riflettersi negli specchi.
Secondo tale credenza, ciascuno di noi ha una serie di “involucri” che lo avvolge. Ogni volta che ci riflettiamo in uno specchio, si stacca uno di questi “involucri” e si proietta su di esso.
Ogni volta, pertanto, perdiamo qualcosa.
Gli indiani d’America pare non amassero farsi fotografare perché pensavano che gli venisse “rubata” l’anima.
Quindi, secondo tali credenze, una nostra immagine riflessa e, a maggior ragione, una fotografia, è una parte di noi che perdiamo, catturata da una superficie che la imprigiona.
Non siamo più dei primitivi (almeno così crediamo ), e sappiamo che un riflesso o una fotografia altro non è che il prodotto della luce che il nostro corpo riflette e diffonde tutt’intorno.
Quindi non perdiamo nulla, perché la luce non è nostra ma è del sole.
Quando ce ne andiamo a passeggio per le strade della nostra città, non ci nascondiamo per il timore di perdere una parte di noi dentro gli occhi di chi ci guarda.
Eppure non accade la stessa cosa quando si viene fotografati. In fondo la macchina fotografica non è che un occhio. Una fotografia altro non è che l’impronta che la luce che ci ha colpito lascia su di un supporto sensibile.
Perché allora molti non si oppongono agli sguardi dei passanti e sono invece infastiditi da una macchina fotografica? Quanto di quelle primitive leggende è rimasto nel nostro inconscio?
Credo valga la pena di rifletterci su.
Voi cosa ne pensate?
Enrico