Testimonianza e/o espressione? Mi interesserebbe moltissimo approfondire con voi il tema. Grazie a tutti
Ciao,
non credo ci siano dubbi: entrambe le cose. La fotografia è la risultante di due componenti: il soggetto, quindi il mondo reale che è davanti all'obiettivo, ed il fotografo, con la sua cultura, la sua storia, il suo modo di vedere e di giudicare la vita, i suoi credi politici, religiosi, morali ecc. In ogni foto c'è un po' dell'uno ed un po' dell'altro. In una foto con intenzione documentaria, la componente "soggetto" è prevalente, anche se è in ogni caso presente la componente "fotografo" che, anche inconsapevolmente, fa comunque delle scelte. Potremmo dire che forse non esiste una foto documentaria al 100 %, ma una foto realizzata in un certo modo, può fornire moltissime informazioni ed acquistare valore di documento. Oggi forse si sottovaluta questo aspetto della fotografia, come appartenente ad un livello inferiore, meccanico e quindi non artistico. Invece credo che il valore della fotografia come testimonianza è unico ed insostituibile. Se osserviamo vecchie foto, è come se ci sporgessimo su di un balcone ad osservare "il passato"; entriamo nella "macchina del tempo".
Al polo opposti ci sono poi le foto tematiche dove il sogetto è solo una scusa, un pretesto attraverso il quale l'autore esprime le proprie idee, i propri sentimenti, le proprie sensazioni. In questo caso la componente "soggetto" è minima e prevale la componente "autore". La realtà diviene come la creta per lo scultore. Il significato della foto può essere molto distante allora dal significato della cosa fotografata. Si potrebbe parlare per giorni su questo affascinante argomento, andando a rivedere la storia della fotografia e del linguaggio fotografico. In questo periodo sto proprio divorando un certo numero di testi sulla storia della fotografia, veramente ben fatti ed interessanti. Penso che un appassioanto di fotografia non debba interessarsi solo di tecnica fotografica, ma anche di linguaggio e, soprattutto di storia della fotografia, per poter collocarsi fotograficamente e fare le proprie scelte.
Scappo perchè altrimenti faccio tardi a scuola.
Buona giornata
ENrico
Ciao
Enrico
Certo la macchina ha il suo fascino. Conservo ancora il fascino della macchina a foro stenopeico che mi costruì mio padre quando ero bambino e delle carte scadute che mi regalava e con le quali ottenevo impronte di piume, sassi e bottoni, esponendole al sole.
Ma non bisogna mai dimenticare che la macchina è il mezzo e non il fine. Il fine sono le fotografie e la diversa conoscenza che esse ci danno del mondo. Purtroppo ho conosciuto gente con macchine ed attrezzature costose, ma le cui foto lasciavano molto a desiderare (quando le facevano).
Non bisogna mai lasciarsi prendere la mano dallo strumento. Ho in soffitta un vecchio obiettivo di mio padre (io non sono più tanto giovane, ho visto passare 60 primavere... e altrettanti inverni). Questa estate voglio divertirmi a costruire una cassetta e sperimentare il calotipo. Ho del nitrato d'argento.
Buona serata
Enrico
ciao enrico,
intanto ti ringrazio per aver risposto. Cominciavo a pensare che l'argomento non suscitasse alcun interesse.
Sono d'accordo con te: la macchina è il mezzo, non il fine. A me però interessa anche indagare ciò che la macchina, la tecnica più in generale, è in grado di generare. Potremmo davvero essere coinvolti, così attratti verso la fotografia, con un atteggiamento di distanza dal mezzo, che la fotografia produce? Non sarà piuttosto che l'uno è indivisibile dall'altro? Al crescere dell'interesse dell'uno cresce l'interesse dell'altro.
Il mezzo tecnico ha un'innegabile fascino, perfino un'innegabile estetica, che non possono essere sottovalutati. Ma anche dell'altro. La tecnica, la macchina, non può certo esaurirsi in se stessa, sarebbe banale e inutile. Mi pare però che non possa separarsi dal risultato, il fine, che tanto condiziona. Per andare sul concreto: non mi è indifferente, per come mi predispone, ma anche per i risultati, stampare con un Meopta o con un Durst M805.
Se stampi un calotipo fammi sapere.
Buona serata anche a te
Per tornare al titolo del tread, mi vien da pormi una domanda: una volta, manipolare una fotografia era cosa da pochi eletti, che dovevano saper armeggiare bene in camera oscura ed era richiesta una non indifferente manualità. Oggi, con la diffusione dei programmi di fotoritocco, manipolare (e quindi alterare) una immagine è cosa alla portata di tutti. Questi interventi fanno perdere buona parte del valore di testimonianza alla fotografia. E mi chiedo ancora: visto che nella maggior parte dei circoli fotografici (e ciò forse è anche indotto dai concorsi) si mira alla foto "artistica", che fine sta facendo la foto documentaria? In quanti ci si dedica ancora ad una attività di documentazione?
Un'ultima riflessione: i concorsi fotografici (che comunque sono un ottimo stimolo all'attività fotografica), in che misura incidono negativamente (l'obiettivo di chi partecipa ad un concorso è quello di vincere un premio e quindi si fotografa "per la giuria") sul modo di fotografare e su di una libera ricerca di un modo vero, personale, di intendere la fotografia e quindi di fotografare?
Ciao
Enrico
E' un percorso lento di evoluzione personale, secondo me Enrico. Non scarterei nulla, né il circolo fotografico e neppure le foto fatte per la giuria. Mi sembra sempre di più che la fotografia sia quanto di più difficile da acquisire. Non parlo della tecnica, ovviamente. Si crede spesso che la grande foto dipenda dal luogo, dalla fortuna di essere nel posto giusto... Non credo sia così. Mario Giacomelli ha fotografato quasi sempre a Senigallia, e questo la dice lunga. E' un lento processo di educazione, non so dire meglio, di capacità di sintesi, di che cos'altro?
Ciao
Enrico, secondo te perché non suscita interesse questa discussione? Mi preoccupa!
Sinceramente preoccupa anche me. A questo punto non vedo molta differenza fra lo scrivere sul forum ed il discuterne in privato. Mi sembra quasi il caso di chiudere il tread.
Ciao
Enrico
nic, il tuo intervento mi suscita una domanda. Certo, i destinatari sono "la terza componente", come la chiami tu. Ma nello scatto, in quel momento decisivo, quanta consapevolezza c'é di questa terza componente? Voglio dire: non sara la fotografia un modo di vedere il mondo talmente intimo e personale, che, almeno nel momento dello scatto, il destinatario scompare completamente? La rivolgo anche a te Enrico.
ciao, apeiron
A proposito, perché al bar siamo destinati alla deriva?
L'intervento di Nic mi ha indotto ad una considerazione che mi sembra interessante. Parlando all'inizio di componente "soggetto" e componente "autore della foto", mi sono posto dalla parte del lettore (mi interesso di "lettura" della fotografia), quindi dalla parte della terza componente.
Se prendiamo come riferimento il fotografo autore, allora le componenti che vede sono "il soggetto" ed il possibile "fruitore". E, specie se spinto da motivi professionali (fotoritratto, matrimonio, reportage per un giornale ecc), costruisce il "segno" fotografico tenendo conto di queste componenti, ed in particolare delle aspettative del committente.
Se ci poniamo invece dalla parte del "soggetto" (ovviamente quando questo è una persona), questi vede il fotografo che gli è dinanzi e gli sta puntando la macchina, e pensa a chi vedrà la foto. E' per questo che si aggiusta la cravatta, si controlla la pettinatura e, più ancora, cerca di tenere un atteggiamento ed una postura tali da apparire come desidera che gli altri lo vedano.
E siccome esiste solo ciò che è visto, è percepito, in relazione al segno fotografico non ci possono essere che questi tre elementi ciascuno dei quali vede dal suo punto di vista gli altri due.
Buona notte
Enrico
per deformazione mentale (non professionale) non penso mai al soggetto che si aggiusta la cravatta o si pettina, poichè nella fotografia a cui penso io, il soggetto è per l'80% dei casi è passivo, oggetto. nel senso che non è consapevole di essere "nel mirino" del fotografo, nè immagina di essere ripreso.
nic
Torno alla questione della "terza componente". Mi piace pensare che vi sia continuità solo tra fotografo e realtà, selezionata attraverso lo sguardo, la cultura ...del fotografo. Che non ci sia posto per nient'altro.Semmai il fruitore è tema d'interesse del committente, come dice Enrico.Quante immagini vengono infatti scartate dal committente in modo che vi sia perfetta aderenza con i soui obiettivi? A meno che il fotografo non intenda piegare il reale, forzandolo verso uno scopo a priori.
Una fotografia che fin dall'inizio tenga conto anche del fruitore, mi sembra "viziata" fin dall'origine, perché "al sevizio di". Non dico che non esista, esiste eccome! Mi interessa però la prima, che mi parla innanzitutto del fotografo.
Cartier-Bresson, da questo punto di vista, è stato maestro anche in questo, Smith altrettanto. Roger Fenton ritraeva i campi di battaglia in Crimea senza i cadaveri, seguendoun progetto funzionale al governo inglese, che voleva fornire all'opinione pubblica un'immagine edulcorata della guerra, senza dolore. Cosa che non fece Felice Beato in India, per esempio.
Mi sembra allora che ogni volta che uno scatto tiene conto anche del fruitore, là c'è un progetto"educativo", nel bene e nel male, che altera il contenuto della fotografia. Per questo lafotografia è mezzo delicato, affascinante, perfino pericoloso.
E' un piacere parlare con voi.
Condivido appieno quanto dici. Il bello del fotoamatore è di non dover sottostare a nessuna committenza. E' quindi libero di esprimersi come meglio crede.
E' anche per me un piacere questa discussione, purtroppo fra... pochi intimi.
Ciao
Enrico
Cari, forse non mi sono spiegato al meglio.
non prendete troppo sul serio il concetto di terza componente.
il destinatario, che come ha detto Enrico può essere anche il fotografo stesso, è elemento essenziale ed intrinseco della fotografia stessa. è questo che volevo dire.
se fate una foto, non la guardate neanche voi e la chiudete in un cassetto, potete dire di aver fatto una foto? la foto stessa esiste? la mia modesta opinione è: no, non è in natura.
il committente è una corruzione di terza componente.
la fotografia non esiste senza il fotografo, non esiste senza il soggetto/oggetto, non esiste se un terzo (che può essere anche il fotografo dopo aver dismesso le sue vesti) non posa il suo sguardo su quel foglio di carta.
piccolo esempio. cito HCB o Eugen, cari ad aperion: tutte le foto che hanno scattato e magari messo in un cassetto, e che nessuno di noi ha visto, esistono?
nic
Eccomi.
Innanzitutto è stato un piacere leggervi.
Ho letto cose interessantissime che condivido quasi in toto.
Vado a ruota libera e senza un preciso ordine.
Secondo me, sostanzialmente e parafrasando Gaber, la fotografia “è partecipazione”. In senso lato ma assoluto. E quindi è sia testimonianza che espressione. Mi spiego. Qualunque sia il genere, è indispensabile che il fotografo partecipi e sia “dentro” l’immagine nel suo percorso completo, anzi in molti casi anche prima.
Certe immagini nascono nella mente e solo dopo si cerca di realizzarle. Questo ovviamente, ma non sempre, può non valere per il reportage puro (vedi, ahimé, le foto di guerra). Il fotografo dovrebbe sempre cercare di essere un tutt’uno con il soggetto, sentirlo, cercare di capirlo e naturalmente interpretarlo secondo la propria personalità. E questo, ripeto, secondo me vale per tutti i generi. Anche in uno still-life si può comprendere bene l’approccio del fotografo verso gli oggetti fotografati, la cura nell’allestire il set, le luci, l’inquadratura e quant’altro, in sostanza la personalità del fotografo.
Questo vale ancora di più, anzi in modo totale, nel ritratto dove il rapporto fotografo-soggetto è imprescindibile per l’ottenimento del risultato desiderato. Occorre veramente conoscere il soggetto ed istaurare con lui un rapporto. E’ compito dell’autore far sentire a proprio agio il soggetto.
D’altra parte se è vero il principio di Heisenberg (quanti ricordi dei miei giovanili studi di fisica…) è anche vero che l’alterazione del sistema/soggetto inteso come persona avviene anche con una semplice conversazione o con un rapporto qualsiasi. Con la fotografia indubbiamente l’alterazione è maggiore perché comunque il soggetto si sente in qualche modo “catturato”. Da qui l’abilità della persona/fotografo nell’ottenere il risultato voluto. Generalmente, a mio avviso, il sistema migliore è l’umiltà nell’approccio. Così facendo nasce il vero ritratto che, a parità di soggetto sarà ovviamente diverso a seconda di chi fotografa. Diversamente si fa una bella istantanea che può, sia ben chiaro, essere validissima. Ma non sarà mai un ritratto, che peraltro è genere difficilissimo proprio perché in qualche modo il fotografo diventa soggetto egli stesso. Questo per prendere ad esempio il genere ritratto.
La tecnica e l’apparecchiatura. Sono il primo a sostenere a spada tratta che la macchina è solo un mezzo e detesto le discussioni tecniche (test MTF e quant’altro) fini a se stesse. Dei miei scatti ricordo a malapena la macchina e l’obiettivo usato, ma non sempre. Però indubbiamente anche io subisco il fascino dell’oggetto. Fotografando da quarant’anni ed avendo avuto anch’io questa passione in comune con mio padre, possiedo attualmente un tot di apparecchi di epoche e formati differenti. Li ho utilizzati quasi tutti arrivando alla conclusione che ciascuno ha un suo proprio e specifico “feeling”. Sono portato a pensare che, in qualche modo, la foto possa essere influenzata anche dall’apperecchio. L’approccio con il soggetto che si ha con una Rolleiflex o con una Hasselblad è diverso da quello che si ha con una telemetro o con una reflex. Prescindendo che ciascuna è tendenzialmente destinata ad uno specifico genere.
Volendo “partecipare” l’immagine nel suo percorso completo non si può prescindere dalla tecnica, intesa come conoscenza degli strumenti e non come fonte di circonvoluzioni mentali che resteranno sempre fini a se stesse impedendo di produrre immagini significative o, addirittura a non produrle. Questa nostra amata disciplina, se vuol essere compresa o almeno appresa nel suo insieme ci porta necessariamente, volendo approfondire, ad interessarci di varie branche: ottica, geometria (prospettiva e inquadratura), chimica ed oggi informatica. Orizzonti veramente vasti e affascinanti che talvolta ti permettono di entrare ancora di più dentro il soggetto ("Blow Up" docet...). Ma occorrono anche il cuore e la sensibilità. Diversamente non si va da nessuna parte.
In sostanza, fare una foto è semplicissimo, fare una bella foto richiede già un certo impegno, fare una foto significativa per noi e potendo per gli altri richiede un impegno totale. Partecipazione, appunto.
Mammamia! Solo ora mi accorgo di quanto ho scritto…! Però, però non taglio nulla.
Alla prossima puntata le mie considerazioni sulla “terza componente”.
Grazie a tutti voi per lo spunto che avete offerto e un caro saluto.
Guido
che dire... è un thread bellissimo, complimenti!
finalmente un po' di sane, genuine, pure, spesse disquisizioni circa la fotografia senza tirare in ballo ottiche e megapixel. Leggervi è stato un piacere che spero di avere ancora.
relativamente alla domanda concordo pienamente con quanto già scritto da voi, ma non aggiungo altro perchè non ho la vs esperienza e non vorrei essere banale.
felice che siate arrivati Claudio, Nic, Toad, Renzo. Via aspettavo.
apeiron
grazie!
però adesso vado a dormire, a domani!
Toad, credo che anche il reportage puro, perfino la fotografia di guerra, non si sottragga da una precisa "scelta" di chi fotografa.Tale scelta è, in fondo, una scelta culturale. Anche in una situazione estrema, io credo, vi è un margine in cui operare una scelta. Dentro quel margine c'è la storia, il cuore, la profondità o la superficialità di chi fotografa. In una situazione estrema, apparentemente, non c'è il tempo di pensare, di organizzare una inquadratura, di scegliere cosa inquadrare... Si suppone che lo scatto sia quasi un automatismo, senza scelta. Una serie di frammenti in cui il tempo del pensiero si annulla. Ma sarà così?
snocciolare a fondo la questione di quale sia la funzione della fotografia è dura. molto dura.
cercherò di fare un velocissimo excursus scrivendo tutto quello che la mia memoria richiamerà, quindi perdonate ogni slegatura o flash isolati.
anche Toad nel suo intervento ha dichiarato, o almeno credo di aver capito così, quali siano le proprie intenzioni fotografiche: costruire un'immagine nella mente e tentare di riprodurla attraverso il mirino.
non a caso porta come esempio ritratto e still life, generi questi che, per certi versi, hanno zone di sovrapposizione. in effetti la fotografia nasce per rendere i ritratti ad olio più realistici.
il primo esempio di fotografia è, guardate un pò, una natura morta (La tavola apparecchiata di Nicoforo Niepce, 1822 circa), le prime commercializzazioni si sono avute con ritratti collettivi di famiglia e non: costava meno di un quadro e il fotografo era molto più veloce del più rapido dei pittori. e, sempre non a caso, spesso chi sceglieva di dedicarsi alla fotografia aveva un trascorso "pittorico" alle spalle: questo è anche uno dei maggiori argomenti dei detrattori della fotografia sostenendo che ad essa si sono rivolti "artisti" falliti, per lo più paesaggisti. per costoro, i detrattori, la fotografia non può essere considerata arte, ma semplicemente un mestiere.
comunque è proprio grazie a questi pittori falliti che la fotografia ha avuto un immediato successo. tutti bene o male avevano conoscenze anatomiche, fotografiche (nel vecchio significato antesignano: conoscenza della scrittura della luce), gusto compositivo.
quindi si può dire che still, ritratto e paesaggio sono i capostipiti della fotografia vivi e vegeti a tutt'oggi.
successivamente la scienza si è rivolta alla fotografia. un immagine può dire meglio di una pagina fittamente scritta: è così che la fotografia nell'ultimo terzo del 1800, dopo appena mezzo secolo di vita, diviene ancilla e strumento essenziale per gli antropologi. non si va in Africa senza fotografo-segreatrio; qualcuno ricopre entrambi i ruoli egregiamente. si passa dalle prime fasi sperimentali ad una fase di testimonianza e archiviazione. solo testimonianza, nessuna espressione, nessun sentimento (forse giusto un pò di disprezzo i gruppi aborigeni).
un esperimento incredibilmente cinico, ma allo stesso tempo molto affascinante, fu fatto agli inizi del 1900, credo 1920, in una prigione in Congo: fu preso un prigioniero, portato in una stanza e legato ad una sedia; macchina su cavalletto di fronte ai suoi occhi. Gli fu detto che si trattava di una modernissima arma da fuoco e che lui sarebbe stato ucciso: titolo della foto "la morte negli occhi". spero di riuscire a ritrovare questa foto e a postarla. è impressionante di come sia stata costruita un'immagine così forte, neanche un attore sarebbe stato in grado di riprodurre il terrore nello sguardo di quel povero cristo.
.... adesso vado a dormire... continuo domani con la seconda parte sperando di postarvi qualche foto richiamata.
e così avrete anche ilo tempo di digerire queste mattonate che sto scrivendo.
nic
Vorrei partecipare anch'io a questo interessante dibattito con un intervento che in parte avevo già inviato in un'altra sezione:
Vorrei aggiungere qualcosa a questo interessante dibattito..Deriva dalla filosofia ed ha a che fare con la costruzione del senso che è poi quello che facciamo nel momento in cui fotografiamo: riproduciamo un pezzo di realtà e gli diamo un significato utilizzando strumenti tecnologici (se capiterà approfondirò in seguito questa parte nel senso che occorrerà chiederci se siano solo strumenti o stiano diventando prolungamenti dei nostri sensi) e culturali. Per questi ultimi ognuno di noi possiede degli archetipi d'immagine, di struttura, di costruzione del significato a cui tende nella vita quotidiana e in particolar modo quando cerca di interpretare la realtà come nella fotografia.
Nel mondo occidentale ci portiamo dietro la nostra cultura , appunto,occidentale fatta di palazzi che abbiamo visto e studiato, di quadri, di musiche, di città, di relazioni, di legami col territorio, di odori, di sapori che utilizziamo continuamente per dare un significato a quello che ci circonda: notiamo che ve ne sono di molti particolari che attengono alla sfera individuale, ma ve ne sono altri, più importanti, che fanno parte dell'immaginario collettivo a cui tendiamo socialmente, come gruppo di individui e che attengono alla sfera sociale: insieme, l'individuale e il sociale, determinano il nostro modo di vedere e interpretare la realtà e quindi di fotografare.... ora mi fermo chè rischi di diventare noioso..,
ciao Gianni
PS: mi riservo un attimo di tempo perchè volevo sviluppare i concetti di tecnica e tecnologia che a mio avviso sono fondamentali nel rapporto persona-immagine: basta pensare a quanto ha condizionato lo sviluppo umano la tecnologia-libro; interessante anche il rapporto autore-immagine-fruitore....
Mi inserisco volentieri in questa interessante discussione proponendovi un "ottica" personalissima e un po diversa su quello che è la fotografia.
L'occhio nel mirino da una sensazione al cervello che lo porta a decidere di scattare e a dar vita ad una immagine che nel momento stesso ha fine.
Indipendentemente dal fatto che finisca in un cassetto venga stracciata o finisca visionata x il mondo ha avuto x l'autore un momento particolare.
Ovviamente la tecnica, l'idea, fanno in modo che l'immagine assuma una certa importanza o un certo valore, sia che la faccia appartenere alla "foto documento" o alla "foto arte" o ad altro ma, già lo stesso autore osservando l'immagine può avere una sensazione diversa da quello che ha visto attraverso il mirino e il fatto che la chiuda in un cassetto o la stracci ne da già una certa valorizzazione.
Ma nel momento in cui decide però di renderla partecipe alle altrui sensazioni entra già in una seconda fase che, ed è questo che voglio mettere alla vostra attenzione, non riguarda + l'immagine ma le sensazioni che essa riporta, un po' come osservare una donna x la sua bellezza o eleganza o altro ma senza conoscerla.
Per finire cerco di spiegarmi meglio col classico esempio del pittore che dipinge il paesaggio e finito si domanda se al quadro non manchi qualcosa e deducendo che x essere completo manca il pittore che dipinge il quadro lo ridipinge con se stesso che sta dipingendo il paesaggio ma inevitabilmente si accorge che manca sempre qualcosa e cosi via via,x farla breve, verso una sorta di infinito.
Ovviamente il paesaggio è l'immagine e i vari pittori che si aggiungono al quadro sono i vari "osservatori" che leggono l'immagine del fotografo.
La mia osservazione finale è che il paesaggio è quello che fondamentalmente il pittore voleva realizzare e che le aggiunte dei vari pittori non sono altro che il ricercare qualcosa di approfondito perdendo di vista il paesaggio stesso.
L'immagine che l'autore mette nel cassetto straccia o rende visibile a tutti è la stessa identica immagine a prescindere dalla scelta che l'autore fa di essa il resto è la conseguenza della scelta dell'autore che esula dall'immagine stessa se non x il fatto che sia proprio il paesaggio a dover attirare l'attenzione restando soltanto un paesaggio e non aggiungendo infiniti pittori che ovviamente necessitano x rivalutare una composizione sempre + ampia ma cha hanno sempre meno a che vedere col paesaggio anche se allarga le vedute.
Tutta sta pappardella x esprimere 2 minuti di concetto su un ponto di vista di cosa sia la fotografia.
Scusandomi x l'opinione del tutto personale un saluto a tutti.
Mamma mia che discussione interessante!
Ho quasi paura ad infilarmici... Ho letto tutto di un fiato!
Secondo me la fotografia è testimonianza ma anche espressione. Anche la fotografia cosiddetta "di testimonianza", ossia il reportage, alla fine non è altro che espressione del fotografo che partecipa all'evento, ma anche dell'osservatore finale.
La stessa scena di guerra, o di una manifestazione, ripresa da reporter con sensibilità diverse verrà interpretata in modi diversi. Anche nelle scene "punta e scatta", dove il tempo di pensare è ridotto al minimo, il nostro istinto ci porta a riprendere la scena con il nostro punto di vista.
Quindi, inevitabilmente, anche la fotografia di testimonianza ha una propria componente espressiva, derivata dalla cultura, dall'educazione ed in genere dalle cosiddette "sovrastrutture" del fotografo stesso...
Non dimentichiamo poi chi del messaggio fotografico ne fruisce: la stessa foto vista da persone diverse, susciterà inevitabilmente sensazioni diverse.
Finalmente la discussione è partita. Grazie a tutti per gli interessantissimi interventi. Apeiron, non è più una chiacchierata a due! Hai dato il via ad una bella discussione.
Poichè mi sembra in tema col discorso sulle tre componenti, allego una delle schede che preparato ed ho consegnato alla fine di un corso sulla lettura dell'immagine (secondo la metodologia della lettura strutturale) che ha per soggetto una foto tematica dove si vede (ho segnato in neretto le osservazioni in proposito) come il significato della cosa fotografata può essere nella realtà molto diverso dal significato della foto che, nella foto tematica in particolare, è l'idea dell'autore.
In questo caso la foto è osservata dalla componente "fruitore" che vede le altre due "soggetto" ed "autore" e cerca di risalire al significato della foto (il segno).
Buon pomeriggio
Enrico
Dopo le due pagine del pdf precedente, una immagine di Robert Doisneau dove una appropriata scelta del punto di vista e mette in relazione le due statue dando all'immagine una significazione maliziosa che è tutta e solo nella mente dell'autore.
Come altro esempio di costruzione di un significato nell'immagine, utilizzando soggetti che quel significato non hanno ma che lo acquistano ad opera del fotografo. In una foto documentaria, si cerca, per quanto possibile, di far coincidere il significato della foto con quello della foto rappresentata.
In alcuni casi invece, l'autore può cercare di ingannare il lettore (e qui entriamo nel campo "etica e fotografia") cercando di far credere che il significato della foto coincida con quello della cosa rappresentata. Argomento questo che giustifica l'importanza dell'educazione alla fotografia, purtroppo assai trascurata dalla scuola, nonostante l'immensa diffusione di essa.
Enrico
Wooffhh...
fatemi un attimo riprendere fiato...
Dunque.... 3 componenti! Tre componenti?
Il fotografo, il soggetto, e il "commitente/destinatario"?
Mi sa che ce n'è un'altra: la Storia.
Mi chiedo, e vi chiedo, morto il fotografro, sparito il soggetto, scomparso il committente, cosa ne è dell'immagine, cosa è diventata? Panta rei... o tutto, alla fine resta com'è? Dell' "attimo" che abbiamo "fissato" cosa è rimasto... o inneschiamo "menzogne" a miccia lunga, dandole in pasto (nel senso di "impastare") a storici, critici ed ideologi, o semplicemente alla nostalgia e al ricordo?
Per altre considerazioni (considerazioni?... diciamo "domande", che è meglio ), lasciatemi un po' di tempo... le sinapsi c'hanno ancora il fiatone
P.S.
Hopps... P.Pazienza è arrivato prima di me... e mi sa che qualche risposta l'ha data
Fino a questo punto abbiamo focalizzato gli elementi fondamentali che entrano in gioco nella fotografia:
il soggetto
il fotografo
il destinatario
ha inserito la storia che a mio avviso abbraccia i tre precedenti:
- il soggetto che muta con i tempi (vedi gli abiti, le pettinature, gli atteggiamenti, le architetture ecc)
- il fotografo la cui mentalità è determinata dal tempo storico, con le ideologie, i credi, le situazioni socio-economiche che sono proprie di ciascun periodo storico
- il destinatario che, anche lui vivendo in un determinato periodo storico, ne è influenzato ed interpreta di conseguenza (legge in un certo modo) il segno fotografico
Sarà che siamo passati dal bar alla sezione “tecniche fotografiche” che mi è venuta una riflessione: della storia fa anche parte lo sviluppo tecnologico e, nello specifico, quello della fotografia. E qui mi piacerebbe che si facesse il punto proprio sul “segno fotografico” che è in fondo il centro su cui ruotano le “tre componenti” di cui si è parlato in questa discussione. In un certo senso anche i contenuti ed il linguaggio fotografico si sono evoluti e trasformati man mano che la tecnica si evolveva. Talbot faceva assumere ai suoi soggetti delle pose dinamiche per cercare di superare l’ostacolo all’istantanea che la bassa sensibilità della carta al cloruro d’argento gli impediva. I ritratti dagherrotipici non potevano avere la spontaneità e la freschezza di quelli che ”potremmo” ottenere noi oggi, in considerazione delle lunghe pose cui erano sottoposti i soggetti. Anche i primi reportage di guerra altro non erano che riprese dei campi di battaglia ad operazioni terminate. L’aumento della rapidità delle emulsioni ha consentito le istantanee e, andando oltre, ha consentito di superare l’occhio, svelando ciò che prima non si era potuto vedere (un esempio per tutti: Muybridge e le fasi del movimento animale).
Potremmo continuare con la conquista dell’ortocromatismo e quindi del pancromatismo ad opera di Vogel e cos’ via. Ed ancora, parlando sempre del segno fotografico, è forse interessante ricordare le dispute fra flouisti e nettasti (il gruppo f/64 col tutto nitido) e la Cameron con il leggero fuori fuoco delle sue foto (dovuto all’attrezzatura o volontario per avvicinarsi di più alla pittura).
Sempre con l’occhio al “segno fotografico”, all’oggetto fotografia, allego una immagine fatta tanti anni fa a mio padre utilizzando la vecchia tecnica della gomma bicromatata (emulsione realizzata con gomma arabica, tempera marrone e bicromato di potassio, stesa con un pennello su carta, esposta e sviluppata in acqua calda) , associata ad una retinatura ottenuta tramite l’uso di un retino autocostruito (allora non c’era photoshop). Stavo vivendo un periodo in cui mi aveva preso la passione di sperimentare vecchie tecniche poiché credevo che avrei conosciuto meglio la fotografia se ne avessi ripercorso le tappe, non solo leggendo libri, ma riproducendo realmente alcune tecniche del passato.
Sarebbe bello che nella discussione si inserissero delle immagini, come mi pare qualcun altro già si era proposto di fare.
Io getto il sasso perché questa discussione non si spenga. Continuiamo ad approfondire gli aspetti che abbiamo evidenziato ed anche quest’ultimo.
Le esperienze e le competenze tecniche e culturali di tutti coloro che sono intervenuti sono veramente un potente mezzo di arricchimento per tutti.
Buona domenica
Enrico
ciao Enrico,
bellissima la foto di tuo padre. L'intera discussione e la questione che tu proponi di lettura dell'immagine aprono a numerosi, altri, sguardi.
Ho riletto tutto con attenzione..., eppure mi pare che manchi qualcosa. Bello e utile scoprire passione, cultura e competenza di quanti hanno partecipato. Eppure...!
Potrebbe essere il tema di una nuova discussione: perché "quella" foto è bella? Si sono tentate infinite letture di una "grande" foto. Analisi sociologiche, geometrico-figurative, semantiche...Ma una "grande" foto, che pure sembra poter corrispondere a ciascuna di quelle analisi, sembra anche sfuggire ad ogni tentativo di completezza. Perché? Cosa manca nelle pur acute, colte analisi?
Potrà mai una "lettura", per quanto eccelsa, contenere "l'ultima verità" di una fotografia. Quella verità che, come la fotografia stessa, può essere colta in un istante, in una semplice, folgorante parola?Così Mario Giacomelli:
"Ho scoperto da un pò di anni che la poesia è il linguaggio in cui sembra di poter fuggire dalle formule della banalità quotidiane. Lo spazio non è più appiattito, le cose che vedevo sempre uguali, (...), ora sembrano modificate. (...).Sento che sto scavando in un deposito di energie che suscitano immagini dove la fotografia è come una traduzione, una ricerca dentro i territori del linguaggio. Queste ultime foto (...) vogliono sentire la nostra presenza (...), solo così si caricano di emozioni".
Apeiron
a tutti per aver iniziato questa bella discussione, alla quale auguro di durare ben più di quelle riguardati le solite questioni su rumore, megapixel e relative s..he mentali.
La fotografia è un potentissimo mezzo documentativo.
Forse non riflettiamo abbastanza su questo punto. Prima del suo avvento non vi erano altri sistemi, se non la pittura, per "fissare" un volto (spesso correggendone i difetti). Ma solo i volti dei potenti e dei ricchi godevano di questo privilegio, solo coloro che avevano le possiblità economiche erano in grado di tramandare ai posteri la loro immagine.
Con la fotografia tutto questo è cambiato. Dopo il costoso dagherrotipo si affermarono i più accessibili ambrotipi e ferrotipi, che avevano la caratteristica di essere un unicum, cioè non riproducibili, ma che consentivano anche alle classi sociali meno abbienti di immortalare la propria immagine. La vera rivoluzione fu dovuta a Talbot (contemporaneo di Daguerre), che percorrendo una via diversa aprì, con i suoi calotipi, la strada alla produzione di più positivi della stessa immagine. Si era aperta la via della "democrazia visiva".
La fotografia consentì finalmente di creare dei documenti di identità (che prima erano semplicemente descrittivi ...), di mostrare luoghi lontani o portare con se, magari all'altro capo del mondo, l'immagine della mamma, dei figli o della fidanzata.
Ecco, questo aggiungerei: la fotografia nacque essenzialmente per la documentazione, non solo però delle persone ma anche dei luoghi e dei monumenti. Più tardi, con il miglioramento delle tecniche e la possibilità di non dover più mantenere il soggetto immobile per molto tempo cominciò la fotografia che conosciamo oggi.
Prima di concludere il mio intervento vorrei ringraziare in particolare Enrico per l'allegato "Lettura immagine"; mi piacerebbe che questo divenisse oggetto di un altra discussione: una lettura a più voci della bellissima foto di Leonard Freed, una discussione dove, oltre ad esprimere le sensazioni che proviamo nell'osservarla, provassimo a dare la nostra chiave di lettura, spiegando (se possibile) quali sono secondo noi punti chiave dell'immagine.
Un saluto
Ciao Franco,
di schede ne ho diverse. Visto che ti interessano, ne pubblico altre due, relativa la prima ad una foto di Vitaliano Bassetti, di natura tematica; l'altra ad una foto di Fulvio Roiter, di natura narrativa. Nella foto tematica, la componente "autore" è nettamente prevalente sulla componente "soggetto", mentre la foto narrativa è da questo punto di vista un gradino più su della foto documentaria, anche se è prevalente la componente "soggetto". In poche parole, il fotografo ci racconta in un certo modo il soggetto che costituisce in ogni caso il centro dell'immagine.
Provo ad inserire una immagine direttamente (ho appena imparato a farlo) e la inserisco anche come collegamento, perchè rimanga se dovessi modificare il sito al quale la prima è collegata. Se la cosa interessa (non vorrei essere noioso), posso inserire qualche altra foto perché possiate commentarla voi. E' semplicemente un discorso di lettura, cioé di interpretazione di ciò che voleva dirci l'autore. Il discorso del perché una foto è bella, proposto da Apeiron, è molto stimolante e complesso. Non credo si possano dare delle regole. Oltre all'aspetto estetico e contenutistico, credo c'entri la psicologia umana, per cui la strada diviene davvero tortuosa, ma questo non vuol dire che non valga la pena percorrerla.
Enrico
Vitaliano Bassetti
IL COSA:
Un adulto ed un bambino in uno scompartimento ferroviario (che si tratti di vagone ferroviario lo si nota soprattutto dal tipico finestrino). L'uomo in primo piano dorme, poggiato sulla spalliera del sedile, e ciò traspare non solo dagli occhi chiusi e dalla posizione del capo, ma anche dall'atteggiamento delle labbra e dei muscoli mimici. Il bambino in secondo piano è invece intento a guardare con attenzione fuori dal finestrino, il paesaggio esterno. Lo si capisce chiaramente dall'atteggiamento, dai gomiti poggiati sul bordo del finestrino e dalla posizione del capo, leggermente ruotato a sinistra ed inclinato.
IL COME
Le due figure sono al centro della foto. La figura del bambino, ripresa di spalle, si staglia nettamente, perché scura, sullo sfondo chiaro del finestrino. Il volto dell'uomo, chiaro, risalta nel contesto scuro della parte inferiore del quadro. Sulle linee verticali del finestrino, le due teste formano una composizione diagonale. Le due figure sono state isolate volutamente dall'ambiente “scomparto ferroviario”, di cui sono stati lasciati solo gli elementi essenziali che permettono di riconoscerlo come tale. L'attenzione del lettore della foto è quindi di proposito fatta convergere sui due atteggiamenti. Il fondo che fa da contorno alle figure, è di tonalità opposta alle stesse al fine di metterle bene in evidenza, ed è inoltre indistinto e quasi privo di dettagli per non disturbarle. Il contrasto di tonalità delle due figure e l'inversione del rapporto chiaro-scuro fra le stesse e lo sfondo, non è casuale, ma ha un chiaro intento espressivo che si evidenzierà al livello successivo di lettura della foto.
IL PERCHE':
L'autore ha voluto mostrare quell'uomo e quel bambino in due atteggiamenti diversi ed opposti. Ci si accorge però che questa significazione immediata, non esaurisce tutti i "come" di questa foto, per cui la lettura va effettuata ad un livello superiore. I due soggetti della foto in realtà rappresentano non due diversi individui, ma due diverse età dell'uomo. La significazione mediata è perciò la seguente: l'uomo, quando è in giovane età, manifesta interesse e curiosità verso il mondo e la vita mentre, divenuto adulto, tale interesse viene ad attenuarsi fino a diventare indifferenza.
Si tratta di una foto tematica.
Ed ora la foto di carattere narrativo di Fulvio Roiter. L'osservazione in rosso mette in evidenza la differenza fra l'immagine e la cosa fotografata. Alcuni elementi sono propri dell'immagine (lo stare al centro del quadro è una collocazione del soggetto nell'immagine mentre nella realtà non è al centro di nulla. Lo sfuocato è un elemento proprio dell'immagine e non ha alcun senso nella realtà ecc):
IL COSA:
Due ragazze negre, col capo avvolto da un fazzoletto e due cesti ovali ripieni di frutta sulla testa. Hanno vestiti leggeri, maniche corte o assenti. La ragazza a sinistra nell' immagine, porta qualcosa nelle mani e sembra guardarla con attenzione.
IL COME:
Le due ragazze sono riprese da vicino (mezza figura e primo piano) e con angolazione da sinistra e dall'alto (per evidenziare i cesti ed il loro contenuto). Lo sfondo è sfuocato. Le ragazze sono riprese di profilo ed una dietro l'altra nel quadro (è l'angolazione di ripresa che le fa apparire l'una dietro l'altra, mentre nella realtà stanno probabilmente procedendo affiancate). Ciò che risalta, chiari sulla tonalità scura delle figure e dello sfondo, sono i due cesti con la frutta, oltre al vestito della prima ragazza, che fa da contrappeso ai primi. La somiglianza di forma ed atteggiamento delle due figure, crea una ripetizione ed un piacevole ritmo compositivo.
IL PERCHE':
L'autore ha evidentemente voluto mostrare l'usanza, in quella regione, di portare i cesti in equilibrio sul capo, senza l'ausilio delle mani.
L'immagine ha quindi un carattere narrativo.
Mi piace "il cosa" e "il come". Meno "il perché". Scusa Enrico se mi permetto. Ma so che è solo un dialogo tra amici.
"Il cosa" e "il come" aiutano ad orientarsi, forniscono le coordinate di supporto... "Il perché" lo trovo invece un pò forzato, artificiale, forse invasivo.
Perché la fotografia dovrebbe aver bisogno del "perché"? E' chiaro che si tratta di una possibilità, spesso acuta e convincente, in grado di soddisfare un bisogno un pò intellettuale di analizzare per scomposizione un'opera.
Ma la fotografia si spiega da sé. Non ha i caratteri dell'opera pittorica o architettonica..., per le quali indagini di varia natura possono fornire ilcontesto nel quale l'opera è maturata, arrivando perfino a spiegare le scelte dell'autore.
La fotografia non chiede nulla e giunge a noi senza mediazioni. E' la sua "immediatezza" che vuole distanza dal "perché". Una fotografia si può glorificare o scartare in un istante.
Non è una delle forme di espressione più libere? La sento vicina alla poesia. Forse è anche per questo che l'amiamo in tanti.
apeiron
P.S. Fatevi sentire poeti del forum
[quote=apeiron,Mar 14 2006, 05:49 PM]
Mi piace "il cosa" e "il come". Meno "il perché". Scusa Enrico se mi permetto. Ma so che è solo un dialogo tra amici.
Ciao Apeiron,
per carità, di che devi scusarti? Si cresce proprio scambiandosi idee e facendosi critiche, cercando di capire insieme questo mondo così complesso ed affascinante che è la fotografia. Grazie anzi a te per aver avviato questa discussione!
Enrico
Ciao Enrico e grazie per averci mostrato altre due schede; le trovo molto interessanti, sia per la qualità delle foto che per la lettura che ne viene fatta.
Ognuno di noi ha la propria chiave di lettura e sono convinto che quanto leggiamo in una foto sia mediato dalla nostra cultura, sensibilità, esperienza, stato d'animo ... che non necessariamente coincidono con quelle dell'autore; questo mi porta a pensare che non sempre sia possibile cogliere pienamente il messaggio che questi aveva in mente. E' un pò come quando si studia un'opera d'arte, per capirla appieno occorre calarsi nel periodo storico in cui ha vissuto l'autore, nella sua vita, nelle sue esperienze, nei suoi problemi, conoscere le tendenze artistiche del momento ... (la lista non finirebbe mai)
Quindi non si deve rinunciare al confronto delle letture, tutt'altro. Il confronto arricchisce la cultura e aiuta a capire meglio il pensiero altrui.
Mi piacerebbe che questa discussione andasse avanti ancora per molto, quindi ... scrivete ragazzi
Un saluto a tutti
P.S. Enrico, dove si possono trovare le schede ?
P.S. Enrico, dove si possono trovare le schede ?
Ciao Franco,
le schede le ho fatte io, sono delle mie letture svolte in alcuni corsi di lettura dell'immagine.
Concordo con te su quanto dici. In effetti il Taddei (il suo testo base è "La lettura strutturale della fotografia" che durante il corso di cui parlavo qualche post fa, mi regalò il Prof. Maccarini che ne era appunto il docente) cerca di aggirare questo problema, mettendo in guardia il "lettore" dalle "integrazioni culturali", vale a dire che la lettura deve essere il più oggettiva possibile se si vuole cercare di arrivare a capire l'idea dell'autore. E' molto facile leggere nell'immagine altrui dei contenuti che in effetti sono dei nostri contenuti mentali, e questo svia da una corretta lettura. Mi è capitato di vedere in alcuni libri della scuola elementare dei miei figli, nelle parti dedicate all'educazione all'immagine, frasi di questo tipo: "A cosa ti fa pensare questa immagine? Quali sensazioni ti procura?". Anche se può essere un uso legittimo dell'immagine, non è certo un buon avvio alla lettura. Così non si avvicina il lettore all'autore. L'immagine diviene un pretesto per leggere "in se stessi". E' sacrosanto quello che dici a proposito del conoscere il periodo storico e tutto il resto. E' anche vero che non è facile, se non impossibile cogliere appieno il messaggio dell'autore, ma ci si può provare e, nella massima umiltà, se il processo di lettura è corretto, ci si può avvicinare molto, senza pretendere di esaurirne il significato.
Ciao
Enrico
Franco, come dicevo a Enrico, la fotografia non possiede (per fortuna?) il carattere di altre opere d'arte. La fotografia ha dovuto perfino affrontare il dibattito, mai concluso, relativo al suo riconoscimento come forma d'arte. E questo significa molto.
Essa deve poter vivere delle sue particolarissime e specifiche qualità sulle quali molto c'è ancora da scoprire, riconoscere, definire...
Se la fotografia avesse il carattere di un'opera architettonica o pittorica potremmo, e forse dovremmo, servirci obbligatoriamente di un'analisi storica per poterla conoscere e quindi amare. Ma l'immediatezza della fotografia, il suo prevalente carattere di testimonianza (e qui finalmente rivelo la mia inclinazione) non ci chiedono di compiere queste analisi per avvicinarla, per amarla.
Una fotografia la si ama, mi pare, in un tempo pari a quello di uno scatto.
apeiron
Visto l'interesse per la lettura, mi permetto di inserire due immagini, entrambe con soggetti al lavoro, eppure molto diverse. La loro qualità non è elevata: sono delle riproduzioni di vecchie diapositive e non ne ricordo gli autori. Non inserisco nessuna scheda. Invito chi vuole a commentarle.
Enrico
Ciao Enrico, non vorrei davvero perdere il filo con te. Ho però l'impressione che siamo impermeabili. Alla tua visione analitica io contrappongo la mia un pò impressionista. Voglio dirti però che il tuo modo rigoroso di vedere le cose mi garba parecchio.
Apeiron
Elogio del forum
Questo forum, questa discussione, è davvero una grande ricchezza. Mi invita a riflettere sul mio interesse per la fotografia e mi insegna a condividerlo. Scrivere, e ancor più leggere i vostri contributi, arricchisce il mio sguardo di infinite sfumature. Una carta di gradazione "0".
Mi invita ad essere autentico, a dare il meglio di me, per incontrare l'interesse di qualcuno di voi.
La fotografia continua a stupirmi.
Ancora una riflessione sul "perché" in fotografia.
Enrico propone un metodo che distingue, correttamente, fra interpretazione e lettura dell'immagine.
Il metodo, certamente rigoroso, porta alla ragione ciò che, per il carattere proprio della fotografia, deve restare allo stupore.
Il "perché" a volte parte dal presupposto che il fotografo nel rivelarci qualcosa del mondo, voglia indicarci qualcos'altro, al di là della testimonianza. Ci inviti a riconoscere un messaggio dissimulato, il cui significato sta oltre l'immediatezza, oltre quell'istante. Di quell'istante ilfotografo si servirebbe per indicarci una riflessione da fare, che rimanda a significati altri, ben presenti nelle intenzioni dell'autore addirittura primadello scatto. Come se il fotografo cercasse la prova delle sue intenzioni attraverso la realtà.
Mi pare che questo sottragga allafotografia il valore di "quell'istante", della irripetibile compresenza di segni, dell'unicità di "quel" momento...
La macchina fotografia rende la realtà atomica, maneggevole, opaca. E' una visione del mondo che nega la connessione e la continuità, ma che conferisce ad ogni momento il carattere di un mistero. Susan Sontag
Un saluto
Peccato che questa discussione si sia esaurita! Molti visitatori ma pochi interventi.Perchè?
La fotografia ha bisogno di essere continuamente pensata. Ha ancora bisogno che venga pensata la sua funzione, il suo ruolo... Il suo orizzonte culturale non è stato ancora tracciato, forse solo sfiorato. La sua poetica non ancora definita.
Se questo non viene fatto, la fotografia continuerà ad occupare il suo posto "marginale".
Non ha mai conquistato una posizione riconosciuta come arte. Non ha mai convinto tutti. Eppure molte e rilevanti sono le espressioni artistiche della fotografia. Sono forse meno artistiche di altre? Nemmeno il suo ruolo educativo, di educazione visiva, progettuale, è stato esplorato fino in fondo.
Ma forse non è questa la strada. Probabilmente il suo riconoscimento non passa per questa via.
Forse bisogna guardare nella direzione che le è propria, vale a dire di insostituibile testimone.La sua bellezza sta (anche) in questo. Una foto è bella anche quando testimonia un orrore, una disperazione...Penso alla straordinaria bellezza delle foto di David Turney, Nick Ut, Ghaith Abdul Ahad...
Possiamo pensare di esaurire il tutto nel compiacimento delle nostre attrezzature (sono il primo a compiacermi!), dello scatto postato e acclamato dal forum...?
Apeiron
Ciao Valerio.
Ho letto solo adesso il tuo Life Una sola foto. Grazie per quello che hai saputo trasmettermi. E' una sensibilità che amo incontrare, bellisssima, non certo rara in questo forum. Questo mi dispone con un'altra, diversa, attenzione. Grazie anche per questo.
Non so se una testimonianza è un prodotto, per quanto tra virgolette. Forse si, ma allora non ne potremmo percepire il valore.Non potremmo provare quell'emozione che sentiamo proprio perché quella testimonianza "ci chiama".
Nel momento in cui diventa testimonianza, cessa di essere "prodotto", perché in quel "documento" riconosciamo qualcosa, nel senso che c'è qualcosa di noi. Siamo tutti perfettamente in grado, anche i più sprovveduti culturalmente,di riconoscere il valore di un documento fotografico. Quel documento è tale quando è in grado di raccontarci in un istante, senza mediazioni, un frammento di vita, di esperienza, di cui però già possediamo traccia. Quando è in grado di portare in superficie una emozione che già ci appartiene, anche se mai vissuta. E' testimonianza quando ci mostra qualcosa che non abbiamo mai visto con gli occhi ma che è già dentro di noi.
Alla tua domanda è davvero difficile rispondere, almeno per me.
Non c'è un'arte propria della fotografia. O meglio, come in tutte le altre forme espressive, le fotografie raggiungono le opere d'arte ogni volta che, con Rilke, "solo l'amore le può abbracciare e tenere ed esser giusto verso di esse". E ancora: "Tutto è portare a termine e poi generare. Lasciar compiersi ogni impressione e ogni germe d'un sentimento dentro di sé, nel buio nell'indicibile, nell'inconscio irraggiungibile alla propria ragione, e attendere con profonda umiltà e pazienza l'ora del parto d'una nuova chiarezza..." Mi pare questo il percorso dell'arte, anche in fotografia.
Con affetto, apeiron
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